Le corde nella torre - Arezzo Trasgressiva

In una Legnano inaspettata, lontana dai cliché, la torre medievale si ergeva come una sentinella di pietra, avvolta da secoli di silenzio e mistero. Nelle sue mura, quella sera, Giulia — restauratrice di trentacinque anni — stava preparando un set fotografico. I riflessi caldi delle luci che aveva disposto si mescolavano al profumo antico della pietra, creando un’atmosfera sospesa tra passato e presente.

Quando Max varcò la soglia, l’aria sembrò cambiare. Alto, barba lunga e sguardo che sapeva osservare senza fretta, portava con sé un’aura di calma autorità. Non era solo un modello, ma un maestro nell’arte dello shibari, capace di trasformare corde in poesia visiva.

— Sei pronta a iniziare, Giulia? — chiese, con una voce profonda e avvolgente.

Lei annuì, ma poi indicò una corda che pendeva dal soffitto.
— Vorrei che mi legassi per davvero… la foto deve raccontare autenticità.

Un sorriso lento si disegnò sulle labbra di Max.
— Allora lasciati guidare.

La prima carezza fu della corda sulla pelle, un contatto ruvido ma preciso. Ogni nodo che Max intrecciava aveva il peso di un gesto antico, di una lingua muta fatta di linee e tensioni. Giulia sentiva la sua libertà dissolversi in una nuova forma di abbandono, consapevole di trovarsi esattamente dove voleva essere.

Max lavorava in silenzio, vicino abbastanza da farle percepire il calore del suo corpo, ma senza mai affrettare i movimenti. I loro respiri si intrecciavano, e tra le mura della torre l’aria sembrava vibrare di qualcosa che andava oltre la scena fotografica.

Quando le corde completarono il loro disegno, Giulia rimase sospesa, letteralmente e metaforicamente. Era prigioniera di un’arte che non era fatta per imprigionare, ma per rivelare.

Max le si avvicinò, portando una mano alla sua guancia, sfiorandola con la delicatezza di chi conosce la potenza del tocco. I loro occhi si incontrarono: in quello sguardo si mischiavano curiosità, fiducia e un’attrazione che non cercava più di essere ignorata.

Il tempo, lì dentro, smise di scorrere. La pioggia iniziò a cadere leggera fuori dalle finestre alte della torre, scandendo un ritmo lento, mentre Giulia e Max restavano immersi in quell’istante.

Quando le corde furono sciolte, Giulia provò un senso di nostalgia improvviso, come se stesse uscendo da un sogno troppo breve. Max, con un mezzo sorriso, disse soltanto:
— I migliori capolavori non si pianificano.

Mentre lasciavano insieme la torre, l’eco dei loro passi si confondeva con quello di una promessa silenziosa: quella non era la fine, ma l’inizio di un intreccio ancora tutto da scoprire.
Passarono tre settimane dal giorno dello shooting. Giulia, immersa nei suoi lavori di restauro, cercava di concentrarsi, ma l’eco di quella serata nella torre medievale tornava a farle visita nei momenti più inattesi. Bastava il suono di una corda che si tendeva o l’odore della canapa grezza per riportarla lì, sospesa, avvolta da nodi che sembravano parlare.

Una sera d’autunno, stava tornando a casa sotto un cielo che prometteva pioggia. Davanti al portone del suo palazzo, appoggiato al muro, c’era Max. Indossava un cappotto scuro, il colletto rialzato, e la pioggia gli aveva lasciato piccole gocce tra i capelli.
— Ti ho cercata, Giulia — disse, con quella voce che sembrava vibrare più nella mente che nell’aria.

Lei lo guardò sorpresa, ma non spaventata.
— Perché adesso? — chiese, tenendo la mano sulla chiave, incerta se aprire.

Max fece un passo avanti, la distanza tra loro ridotta a un respiro.
— Perché certe corde non si sciolgono davvero.

Salirono le scale in silenzio. Nell’appartamento, Giulia accese solo una lampada in un angolo: la luce calda disegnava ombre morbide sulle pareti. Max posò sul tavolo una borsa di pelle, e il suono metallico di qualcosa all’interno ruppe il silenzio.

— Non è per uno shooting questa volta — disse, aprendo la borsa. All’interno, rotoli di corde ordinate e qualche candela.

Giulia sentì un brivido. Non era paura: era anticipazione.
— E per cosa, allora? —

Max la fissò, e la sua espressione era quella di chi conosce un segreto che sta per essere svelato.
— Per una scena che esiste solo per noi.

La corda tornò a sfiorare la sua pelle, ma questa volta non c’erano macchine fotografiche, nessun obiettivo da compiacere, nessuna finzione artistica. Ogni nodo era un dialogo silenzioso, ogni tensione un invito a fidarsi un po’ di più.

Fu allora che Giulia capì: non era solo legata fisicamente, ma emotivamente. Max stava scrivendo su di lei una storia invisibile, fatta di trame e pause, di respiro trattenuto e di attese cariche di senso.

Quando la scena finì, Giulia si rese conto che tra loro era nato un filo sottile e resistente, come le corde che li avevano uniti. Un filo che nessun tempo o distanza avrebbe potuto recidere.

Uscì nel corridoio per salutarlo, ma Max si voltò prima di andarsene.
— La prossima volta… non saremo soli.

E con quella frase enigmatica sparì nella notte piovosa, lasciandola con un cuore in tumulto e una curiosità che le impedì di dormire fino all’alba.

Due settimane dopo, Giulia ricevette un messaggio breve, quasi un comando:

"Torre. Alle 20. Porta un vestito nero."

Niente firma. Non ce n’era bisogno.

La sera, la torre medievale era immersa in un silenzio quasi irreale, interrotto solo dal ticchettio delle sue scarpe sul pavimento antico. La sala era illuminata da candele disposte in cerchio. Max era lì, ma non era solo. Accanto a lui, una donna alta, capelli rossi raccolti in una treccia, vestita di seta color cremisi.

— Giulia — disse Max con un sorriso calmo — lei è Leda. Una mia… collaboratrice.

Gli occhi di Leda erano intensi, di un verde penetrante, e la osservavano come se leggessero tra le pieghe della sua anima.
— Stasera sarò io a iniziare. Max completerà l’opera — disse con voce vellutata.

Giulia sentì di entrare in un territorio ignoto. Leda le prese le mani, il tocco leggero ma fermo, e iniziò a legarla con un’abilità diversa da quella di Max: più fluida, quasi danzata. Le corde le avvolgevano i fianchi, il busto, incrociandosi come un disegno segreto. Max, in silenzio, osservava, ogni tanto annuendo.

Quando Leda terminò, Max si avvicinò, completando il lavoro con nodi che tiravano in punti strategici, creando una tensione perfetta tra immobilità e resa. Giulia si sentiva al centro di una tela, sospesa tra due energie opposte e complementari.

— Non c’è fotografia, non c’è pubblico — disse Max, chinandosi vicino al suo orecchio — solo noi tre e questo momento.

Leda le sfiorò il volto, i polpastrelli morbidi come piume, e poi si spostò dietro di lei, intrecciando il suo respiro con il suo. Max, davanti, la guardava intensamente.
Era come se la corda fosse diventata un linguaggio segreto, e Giulia, pur senza parlare, rispondeva ad ogni gesto, ad ogni pressione, con un battito accelerato o un respiro trattenuto.

La tensione crebbe fino a diventare quasi palpabile, e Giulia si rese conto che il piacere stava nell’attesa, nel sapere che loro controllavano ogni suo movimento, ogni minima reazione.

Quando Max sciolse l’ultimo nodo, Leda si limitò a dire:
— Ora sei pronta.

Giulia, ancora stordita, cercò di chiedere:
— Pronta… per cosa?

Max le prese il mento, sollevando il suo sguardo verso il suo.
— Per il vero spettacolo. Ci rivedremo presto… ma non qui.

E con un cenno a Leda, se ne andarono insieme, lasciandola sola nella torre, con il cuore in tumulto e la sensazione netta che quella notte fosse stata solo l’apertura di un capitolo molto più grande.

Giulia capì che, qualsiasi cosa l’aspettasse, era già legata a loro — non dalle corde, ma da un filo invisibile che non aveva alcuna intenzione di spezzare.

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