Archetto e frustino - Arezzo Trasgressiva

Nel cuore di Cremona, dove l’aria sembra sempre vibrare di musica e di storia, Matteo preparava il suo violino come se stesse lucidando un gioiello. Trentaquattro anni, mani lunghe e agili, il volto segnato da un’intensità che pochi notavano davvero. Quella sera, però, lo strumento che avrebbe “suonato” non avrebbe avuto corde di metallo, ma respiri, sguardi e pelle.

Il suo ospite era già in cammino.
Irene.
Quarant’anni, un’eleganza che tagliava l’aria come una lama e occhi chiari, così freddi da sembrare scolpiti nel ghiaccio. Mistress per mestiere, artista del controllo e della seduzione per vocazione.

Il loft di Matteo era avvolto da una luce calda e soffusa. Il legno chiaro dei pavimenti, le scaffalature piene di spartiti, il profumo di resina e vino creavano un’atmosfera sospesa, come se ogni cosa sapesse di dover partecipare a un rito.

Quando Irene entrò, il silenzio si caricò di una presenza magnetica. Indossava un abito nero aderente, che lasciava intuire più di quanto mostrasse. Matteo le porse un calice di rosso corposo; lei lo accettò, sfiorando appena le sue dita, ma con la precisione di chi conosce il peso di un contatto.

«Hai promesso di farmi ascoltare la tua musica» disse, la voce un filo che si insinuava nella mente. «Ma stasera, Matteo… la melodia la suoneremo insieme.»

Il violinista sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Era un invito, ma anche un avvertimento.
Irene si mosse attorno a lui come se stesse studiando un’opera d’arte. Gli sfiorò la spalla, poi il petto, con un tocco misurato, quasi analitico. Con un gesto lento, slacciò i primi bottoni della sua camicia, lasciando che l’aria fresca gli accarezzasse la pelle.

«Chiudi gli occhi» ordinò, non alzando la voce ma rendendo impossibile disobbedirle.

Matteo obbedì. Sentì il fruscio di tessuto e il suono metallico di qualcosa che veniva posato su un tavolo. Quando riaprì gli occhi, lei teneva tra le mani un set di corde da concerto, lucenti e sottili. Le passò tra le dita come fossero fili di seta, poi con calma gli legò i polsi. Non c’era violenza nel gesto, ma una fermezza che annullava qualsiasi dubbio su chi fosse a condurre quella serata.

Lo fece sedere accanto a una grande finestra, la città di Cremona che pulsava di luci fioche sotto di loro. Irene prese posto di fronte, a pochi centimetri, e lo fissò a lungo, come se stesse accordando uno strumento invisibile.

«Ogni corpo ha il suo ritmo» disse. «Il tuo lo imparerò nota per nota.»

Non servivano colpi o fruste per far salire la tensione; bastava il suo sguardo, il suo avvicinarsi e allontanarsi, la voce bassa che scandiva frasi come battute musicali. Matteo sentiva ogni fibra del corpo in attesa di un gesto, e ogni secondo di quella sospensione era esso stesso un piacere insolito, quasi doloroso.

Infine, Irene si chinò, portandosi a pochi millimetri dal suo viso. Il profumo era un misto di spezie e pelle calda. «Non suonerai con le mani, stasera» mormorò. «Ma con ciò che sai nascondere meglio.»

Il resto della notte si mosse come un adagio che diventava allegro: momenti di quiete, lunghi sguardi, piccoli comandi che Matteo eseguiva senza discutere. Le corde vennero sciolte solo quando lei decise che il brano era finito.

Quando l’alba cominciò a tingere di rosa i tetti di Cremona, Matteo sedeva ancora sul divano, esausto ma vigile, mentre Irene si infilava lentamente il cappotto.
Prima di uscire, si voltò e disse soltanto:
«La prossima volta… sceglierai tu il tempo e il ritmo. Ma ricorda: ogni maestro è stato prima uno studente.»

La porta si chiuse.
E Matteo, guardando il violino sul tavolo, si rese conto che nessuna esibizione, per quanto perfetta, avrebbe mai eguagliato la sinfonia che avevano appena scritto insieme.

Erano passate tre settimane dalla notte in cui Irene aveva diretto la loro sinfonia privata.
Da allora, Matteo non aveva più guardato il suo violino nello stesso modo. Le sue dita, abituate a comandare le corde, si scoprivano spesso a ricordare la sensazione delle corde che avevano legato i suoi polsi. Non c’era vergogna in quel pensiero, solo una curiosa gratitudine per un risveglio inatteso.

Quella sera, il loft era diverso.
Matteo aveva spento tutte le luci, lasciando che la stanza fosse rischiarata solo da candele disposte in punti strategici. Il violino era riposto, ma al centro del tavolo c’era un piccolo scrigno di legno, aperto, e dentro brillavano le stesse corde da concerto che Irene aveva usato su di lui.

Alle nove in punto, un bussare secco.
Matteo aprì.
Irene era lì, identica eppure diversa, forse perché stavolta era lui ad aspettarla. Indossava un soprabito lungo, e dai movimenti si intuiva che sotto fosse pronta per qualsiasi cosa.

«Puntuale» disse lei, entrando senza esitazioni.
Matteo non rispose subito. Le tolse il cappotto, posandolo con cura sulla poltrona. «Stasera…» cominciò, fissandola negli occhi, «vorrei proporti un controcanto.»

Un lieve arco di sopracciglio, e un accenno di sorriso. «Parla.»

Lui prese le corde dallo scrigno, le sollevò e le fece vibrare tra le dita, producendo un suono sottile. «Le stesse note… ma con un’altra partitura.»
Si avvicinò, lentamente, fino a ridurre la distanza a un soffio. Non le chiese il permesso. Le prese le mani e, con un gesto misurato, le fece scivolare dietro la schiena, legandole con la stessa sicurezza che aveva imparato osservandola.

Irene non si oppose.
«Interessante» disse soltanto, ma nei suoi occhi c’era una luce nuova: la sorpresa.

Matteo la guidò verso il centro della stanza, come un direttore d’orchestra che accompagna il primo violino. Ogni passo era calcolato, ogni movimento aveva un tempo preciso. La fece sedere sul divano, poi si chinò, mantenendo lo sguardo fisso nel suo.

«Hai detto che ogni maestro è stato prima uno studente» mormorò. «Stasera il mio brano lo suono io.»

Il loro dialogo diventò fatto di gesti: carezze lente, pause studiate, sguardi che duravano più di quanto fosse comodo. Non c’era la furia della prima volta, ma una tensione quasi più difficile da sopportare. Il potere cambiava mani e poi ritornava, come due voci che si inseguono in una fuga musicale.

Quando Irene, infine, si trovò libera dalle corde, non prese il comando come Matteo si aspettava. Rimase lì, a guardarlo, con un sorriso che non aveva nulla di ironico.
«Bravo» disse piano. «Hai capito che la musica migliore non è quella in cui uno solo dirige… ma quella che si crea insieme.»

Non ci fu un finale fragoroso.
Rimasero seduti, vicini, ascoltando la pioggia battere sui vetri, con le dita intrecciate e il respiro calmo. In quella quiete, Matteo capì che la loro storia non aveva bisogno di un’apoteosi: era già stata una composizione perfetta, dove ogni pausa e ogni nota avevano trovato il loro posto.

Quando Irene si alzò per andarsene, si voltò sulla soglia.
«Il vero segreto della musica, Matteo, è sapere quando smettere di suonare.»

E sparì nella notte di Cremona, lasciandolo con il cuore colmo e la sensazione di aver chiuso il cerchio.


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